Monsignor Marco Navoni, Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, spiega perché il Padre putativo di Gesù, che la Chiesa onora come custode del Figlio di Dio, sia considerato uomo giusto, umile e ubbidiente.
Il primo accenno a un culto per lo sposo di Maria e custode di Gesù risale solo al secolo X in Germania, ma si trattava probabilmente ancora di una devozione di carattere locale e privato: in ogni caso il giorno dedicato a tale ricorrenza è già indicato come il 19 marzo.
Un vero e proprio culto pubblico inizia nel secolo seguente, anche in concomitanza con l’esperienza delle crociate: a Nàzaret fu infatti edificata una basilica in onore di san Giuseppe sul luogo dove la tradizione voleva che ci fosse stata la sua casa con il laboratorio di falegname.
Nel Medioevo la devozione a questo santo fu incentivata e diffusa fra il popolo cristiano dagli ordini mendicanti (francescani e carmelitani), finché papa Sisto IV, alla fine del secolo XV, ne approvò ufficialmente la festa. Per quanto riguarda la nostra liturgia, ricordiamo solo che san Carlo spostò la festa di san Giuseppe al 12 dicembre, da un lato per non interrompere il clima austero della Quaresima che nella tradizione ambrosiana esclude ogni celebrazione di santi, e dall’altro per collegarla più direttamente con le feste natalizie, come logica preparazione a esse.
Quando poi il 19 marzo divenne festa di precetto nella Chiesa occidentale, anche la liturgia ambrosiana si adeguò definitivamente a tale collocazione. E tuttavia, proprio riagganciandosi all’intuizione di san Carlo, il Lezionario Ambrosiano molto opportunamente ha voluto collocare al 16 dicembre, prima delle ferie prenatalizie, la Commemorazione dell’annuncio a san Giuseppe, con la profezia di Natan sul Messia quale discendente di Davide (cfr. 2 Sam 7,4-16 passim) e il sogno di Giuseppe durante il quale l’angelo gli annuncia la missione di essere il custode del Figlio di Dio e della Vergine Maria (cfr. Mt 1,18b-24).
In questo modo il ricordo liturgico di san Giuseppe, oltre che al 19 marzo, resta strettamente collegato – come è naturale – con il mistero natalizio e inaugura quella che potremmo definire (con le successive ferie prenatalizie) una vera e propria novena di Natale. Oltretutto, da molti anni il 19 marzo ha cessato di essere festa di precetto, con la conseguenza che la figura di san Giuseppe rischia di passare in qualche modo inosservata.
La doppia memoria che l’anno liturgico ambrosiano riserva invece a questo santo (il 16 dicembre e il 19 marzo) ci permette, a sua imitazione, di tenere viva l’attenzione su alcuni valori perennemente validi da incarnare nella nostra esistenza quotidiana. È facile infatti farsi un’idea sbagliata di san Giuseppe, riducendolo, all’interno della santa famiglia di Nàzaret, quasi a un inerte spettatore di prodigi più grandi di lui: il Vangelo invece ce lo presenta come modello concreto di quella fedeltà totale e assoluta a Dio che non è inerzia o passività, ma attiva collaborazione ai piani della divina provvidenza.
Ebbene, tale fedeltà e collaborazione sono richieste a ogni cristiano e quindi anche a ognuno di noi. Per questo, fissando la nostra attenzione sulla vita di questo santo, vediamo brillare soprattutto tre virtù: l’ubbidienza, l’umiltà, la dedizione al proprio lavoro. È il Vangelo che suggerisce l’elogio più bello di san Giuseppe, quando lo definisce “uomo giusto”.
Se ci chiedessimo in che cosa consiste la giustizia di Giuseppe, dovremmo rispondere: nella sua obbedienza alla volontà di Dio. Di fronte alle disposizioni divine, anche quando umanamente sembrano insormontabili o cariche di difficoltà e di fatica, Giuseppe non fa mai obiezioni, non si lamenta né si rifiuta di eseguire con prontezza quanto il Signore gli ha proposto, e tutto questo perché era un uomo di fede profonda e genuina.
È qui che soprattutto noi cristiani siamo chiamati a seguirlo e imitarlo: chi crede sul serio, infatti, è docile alla Parola di Dio, è sempre disponibile ad accogliere la volontà del Signore anche in mezzo alle difficoltà della vita, non reagisce ribellandosi o, al contrario, rassegnandosi passivamente, ma – come Giuseppe – mette tutto se stesso a disposizione del piano di Dio, con gioia, entusiasmo, prontezza.
La seconda virtù che vogliamo contemplare in san Giuseppe è l’umiltà, con la capacità di fare silenzio davanti all’intervento di Dio. Egli non ebbe nella sua vita momenti di celebrità né ore di gloria: la sua unica e vera gloria fu quella di vivere a Nàzaret accanto al Signore Gesù, custodendolo per tanti anni. Anzi, quando Gesù comincerà a manifestarsi come Messia all’inizio della sua vita pubblica, la figura di Giuseppe sembra quasi un ostacolo, un impedimento a che la gente lo accolga come inviato di Dio.
Gli abitanti di Nàzaret, ad esempio, davanti al loro concittadino Gesù che insegna nella sinagoga con sapienza e autorevolezza e che, soprattutto, si presenta come la realizzazione vivente delle antiche promesse messianiche, obiettano: «Ma costui non è il figlio di Giuseppe? Non è costui il figlio del falegname? Chi pretende di essere?» (cfr. Lc 4,22; Mt 13,55).
C’è invece una antifona liturgica della festa di san Giuseppe che rilegge questi stessi versetti evangelici in modo diametralmente opposto: «Cristo Signore volle farsi chiamare “il figlio del carpentiere”». Ciò che per gli abitanti di Nàzaret era stato motivo di sorpresa, di disappunto, di scandalo, diventa invece, nella rilettura liturgica, un piano provvidenziale, voluto da Dio: fra il titolo di “Signore” e l’umile, quasi umiliante, qualifica di “figlio del carpentiere Giuseppe” non c’è contraddizione, come vorrebbe la gretta logica umana, ma c’è il sapiente progetto di Dio che ha voluto inserire nella storia della salvezza uno sconosciuto operaio della Galilea.
Poi nessuno parlerà più di Giuseppe, neppure il Vangelo: egli si ritira in buon ordine, perché ha compiuto la missione affidatagli da Dio, ma non verrà dimenticato perché di lui si ricorderanno sempre quelle anime semplici e umili che lo vorranno prendere come modello, come esempio discreto di chi nel silenzio e nell’umiltà è pur sempre disposto ad accogliere la volontà di Dio e a collaborare con essa. Infine Giuseppe è celebrato come il patrono dei lavoratori: praticava infatti un lavoro manuale duro e faticoso, ma possiamo ritenere che lo considerasse il proprio mezzo quotidiano di santificazione.
Il falegname Giuseppe ci insegna allora che la perfezione non sta nella ricerca e nella esecuzione di una attività ritenuta nobile e prestigiosa, ma nella fedele esecuzione del proprio lavoro, qualunque esso sia, perché per il regno di Dio ogni lavoro è grande e nobile, se è compiuto con impegno e con amore. Oggi parlare di fedeltà al proprio dovere sembra vuota retorica di altri tempi: la silenziosa figura di san Giuseppe ci dice invece che anche questo è un valore importante, mai fuori moda, mai fuori tempo, ma sempre attuale e urgente per chi vuole affrontare cristianamente il suo impegno quotidiano.
La famiglia di Nàzaret di cui Giuseppe fu il custode è immagine di un’altra famiglia che è stata affidata alle sue cure: san Giuseppe infatti, nel 1870, fu proclamato da papa Pio IX patrono della Chiesa universale. È consolante allora, per noi che formiamo questa famiglia che è la Chiesa, sapere che su di essa veglia e per essa prega e intercede un uomo giusto, obbediente, silenzioso, dedito al suo dovere, fedele fino in fondo alla propria missione.
Forse ai nostri tempi, in cui dominano il chiasso, la superficialità, il disimpegno, quello che ci vuole, anche e soprattutto per la nostra vita di credenti, è proprio un esempio come quello che san Giuseppe discretamente e perennemente ci offre. (Marco Navoni – Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana)
(immagine ChiesadiMilano)