Un prete ambrosiano: non nominiamo “la povertà” invano

Don Pietro Raimondi ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini nel 2000, dopo anni in parrocchia e nel carcere di san Vittore a Milano come cappellano, insegna ora a tempo pieno Diritto, Etica, Comunicazione e Fotografia presso i Ciofs-Fp (Centri di Formazione professionale salesiani Lombardia). In questi istituti si cura la formazione professionale di adolescenti che, dopo le scuole medie, desiderano orientarsi al mondo del lavoro. Ogni giorno don Pietro pubblica un brevissimo testo sul sito “La Locanda della Parola” www.lalocandadellaparola.it

Dal 2016, inoltre, egli si reca regolarmente a Timor Est (salvo il periodo del Covid), calandosi in una realtà dove il termine “povertà” assume un significato reale lontano anni luce da quello che impropriamente – e forse abusivamente –, ci arroghiamo di dare nei nostri quotidiani discorsi.

Nel 2021 ha scritto a quattro mani con don Alberto Lolli, “Nessuno lo ha mai visto”, Skirà editore. Persona di cultura poliedrica, gli abbiamo rivolto alcune domande sulla sua esperienza di vita oltre che sulla sua scelta sacerdotale.

Quale lezione importante ha imparato nei periodi estivi che trascorre nel Sud-Est asiatico e precisamente a Dili in Timor Est?

Non è semplice rispondere a questa domanda, forse dovrei porla io stesso a chi mi conosce, chiedere in cosa mi vede cambiato. Ma è anche vero che quello di trascorrere il tempo delle ferie in Paesi lontani è un vizio che ho da tempo, è difficile distinguere ciò che io sono da ciò che ho imparato.

Quello che posso dire è che vivere qui a Timor Est da dove vi scrivo (o in carcere o in altri Paesi dove la vita è dura) mi costringe a cambiare visuale, a vedere la vita in modo diverso e a conoscere l’umanità e rimettermi sempre in discussione. Come credente mi rendo conto che il Vangelo di Gesù di Nazareth si può comprendere meglio e più facilmente se si legge in queste situazioni. Non che sia impossibile capire il Vangelo in un salotto, ma è meno immediato. Sì, in definitiva posso dire che la lezione più importante è di esegesi evangelica.

Che idea hanno della Chiesa i poveri di quel luogo?

Immagino che per “poveri” intenda la gente, tutta la gente. Io vedo un grandissimo rispetto per la Chiesa e tutti gli uomini e le donne di Chiesa (preti e suore). La popolazione è quasi completamente cattolica, con una parte di protestanti e pochissimi musulmani. La Chiesa, durante il genocidio (1975-99) ha operato un ruolo fondamentale. Ricordiamoci che Giovanni Paolo II si spinse sin qui per lanciare il segnale che “noi non ci dimentichiamo di voi”. Si sentono salvati dalla Chiesa. Basta ascoltare i racconti di suor Alma Castagna (di Lecco) o padre Locatelli (di Locatello, Valcava) per capire cosa hanno passato e cosa ne hanno fatte per questa gente i preti e le suore. La riconoscenza è dunque immensa. È gente che non dimentica.

Certo, gli occhi ce li hanno e pure il cervello. Notano le eventuali incoerenze di comportamento. Distinguono tra preti che fanno del bene e quelli che si pavoneggiano godendo del loro ruolo importante agli occhi della gente normale. Esternamente portano un grandissimo rispetto per l’abito.

Qui la gente, appena sa che sei prete, si china portandosi alla fronte la tua mano. È un gesto che ho visto fare anche con gli anziani, non è riservato ai sacerdoti, ma – appunto – dice molto. Nonostante ciò, interiormente distinguono chi è autentico e chi, come diceva Gesù, “ama solo i saluti nelle piazze”.

Sarebbe anche bello chiedersi cosa pensi il clero di sé. Quale è il vero motivo che spinge un ragazzo o una ragazza timorese a farsi prete o suora. Aiutare e assistere la gente? Lottare per la giustizia sociale? Celebrare Messe solenni con belle vesti? Avere una bella sistemazione economica e una porta aperta sull’occidente? Ho visto cardinali e preti novelli portati in sedia gestatoria. Da noi è così, mi dicevano. Ma i più intelligenti mi hanno confidato che questo clericalismo li disgusta e li offende. “Vorremmo che i nostri preti fossero come padre Locatelli”…

Vedere la povertà ogni giorno, quale effetto ha per una persona che proviene dal ricco Occidente?

Può avere i più vari effetti. C’è gente che per lavoro o missione ha vissuto in Paesi molto poveri e ne è tornata irritata e addirittura razzista, convinta che quei popoli siano poveri perché poco intelligenti e pigri. Bisogna andarci al momento giusto, quando l’anima lo chiede. Io ebbi il mio primo impatto con la miseria nel 2008 in Bolivia, grazie al gruppo giovani del mio oratorio che letteralmente mi obbligò a portarli in missione. Si partì senza la benedizione dell’ex parroco che riteneva l’oratorio l’unica vera missione possibile.

Mi girò le spalle ed entrò in sacrestia. Io andai all’aeroporto. Poi facemmo pace. In Bolivia vidi i primi bambini morti, entrai per la prima volta in baracche, giocai nei Centri per bambini handicappati, viaggiai sui fiumi su mezzi di fortuna. Alcuni giovani, al rientro in Italia, cambiarono facoltà universitaria optando per indirizzi più umanitari e sociali. Per anni trascorsi le estati là, con don Eugenio Coter (ora vescovo in quelle terre amazzoniche). Poi ci furono gli anni in carcere che, pur in centro a Milano, è un mondo di miseria.

Nella povertà bisogna immergersi. A me l’immersione nella povertà serve per disintossicarmi dal mondo occidentale. Serve per essere più vero e, come dicevo, per capire meglio il messaggio di fraternità universale del Vangelo.

I poveri che vede a Dili e quelli che incontra per le strade a Lecco, a Milano, in altre città italiane od europee sono uguali?

Credo che dovremmo intenderci sul termine “poveri”. La Bibbia usa spesso la parola “poveri”. È una parola sacra e in Italia mi pare che la si pronunci spesso invano. Forse con “poveri” intendiamo dire “gente che va assistita”. Persone che ormai giacciono ai lati della strada e della società. Persone senza futuro. Certo, a Lecco e a Milano o in città europee si vedono persone così. Ci sono anche molte persone in gravi difficoltà economiche. Ma nessuno in Italia muore di fame. Nessuno muore di sete. Si muore di anoressia, di suicidio da depressione, si muore di droga e alcool, si muore per obesità. Ma non di fame. Vi è chi è convinto che in Italia ci siano milioni di poveri affamati, ma è un’opinione frutto di ignoranza e di informazione ignorante.

Noi italiani siamo molto ignoranti. Non conosciamo la geografia, la storia, non siamo in grado di leggere un articolo in inglese. Quando siamo all’estero siamo solo capaci di cercare gli spaghetti e di lamentarci se non sono al dente. Eppure crediamo – come tutti gli ignoranti – di saperne sempre una su tutto. Lecco non sarà mai una città fatta interamente di casupole di cemento e lamiere come Dili, da cui vi scrivo. Pensare di essere poveri è un insulto alla miseria o, per lo meno, alla propria scarsa intelligenza.

Io a Dili non vedo “poveri”. Qui è tutta una situazione di povertà. Certo, anche qui si vedono i mendicanti. Ma qui la povertà è essere un ragazzo di 21 anni, intelligente e pieno di sogni, e non poter studiare perché i soldi non ci sono nemmeno per mangiare. E non ci sono perché non bastano, non perché si sta sdraiati sul divano aspettando i sussidi statali. Non bastano neanche per un uovo. Povertà è vivere in una casa di lamiere e non poter riparare il tetto. È essere ammalati e non poter raggiungere l’ospedale o non poter pagare l’aereo per tentare cure all’estero.

Povertà è dover chiedere al prete italiano cento dollari per fare la lapide alla tomba del proprio bambino. Povertà è avere vent’anni e sognare sapendo che resteranno sempre e solo sogni. Povertà è avere un posto fisso ma un salario di 120 dollari e pagare internet 1dollaro al giorno, un litro d’acqua 50 cent, dodici uova 1,50 dollari. Fate le proporzioni e capirete il costo della vita.

Povertà è vedere l’amico bianco come me che arriva e va e tu resti lì, a guardare l’aereo che si alza in cielo. Dunque la risposta è no, i poveri non sono uguali.

I giovani sono il futuro del mondo. A Dili, i ragazzi con i quali viene a contatto, come avvertono la fede? Per loro è un sostegno fondamentale?

Per loro Dio c’è. In ogni stanza c’è una nicchia con una piccola statua di Maria o Gesù, un rosario, un’immagine. Tutti mi chiedono in regalo una croce da mettere al collo, tutti chiedono una preghiera e mi assicurano la loro. C’è poi chi ha fede più profonda, c’è invece chi è più distante. Ma tutta la vita è vissuta sapendo che Dio c’è. L’esistenza di Dio non è messa in discussione. Sarebbe come perder tempo a dire che il sole non esiste. È un mondo completamente diverso dal nostro dove, dall’illuminismo al consumismo, tutto ha contribuito a cancellare Dio dalla vita.

I nostri giovani, anche molti di quelli che in questi giorni sono alla JMJ, vivono tranquillamente come se Gesù di Nazaret non fosse mai né nato né risorto. Cantare un canto religioso, portare una croce al collo, pregare, partecipare ad un incontro spirituale, sono tutte cose da “sfigati”, scusate il termine. Ecco, qui è da sfigati non credere in Dio. Quale Dio venga poi testimoniato e predicato da preti e suore, questo è un altro problema che, tra l’altro, vale anche per noi.

In genere posso dire che qui i giovani sono pieni di sogni. Sono sognatori, progettuali, intraprendenti, lottatori. Ovviamente vanno aiutati a lottare per ciò che vale e non per un Iphone, ma sono persone vive. Ecco, la vitalità e il desiderio sono fortissimi.

I suoi studenti come percepiscono la fede e per loro è un sostegno? Quali le differenze sostanziali tra i suoi studenti e i giovani di Dili, se ritiene possibile un paragone?

Anzitutto voglio premettere che amo insegnare anche se è un lavoro durissimo, sottopagato e psicologicamente sfiancate. Ai mei alunni voglio molto bene, mi prodigo per loro così come fanno tutti i miei colleghi, senza eccezioni e senza risparmio di energie.

Io li chiamo alunni, perché “studenti” è un participio… Ecco, i miei alunni non sanno nemmeno cosa sia la Chiesa. Per questo i preti dovrebbero insegnare, entrare nelle scuole là dove i giovani sono a migliaia, per migliaia di ore all’anno.

Gli adolescenti che io frequento non sono tutti gli adolescenti di Italia ma un campione particolare. Quindi non posso generalizzare e parlo per la mia esperienza diretta. Parlo e dico che sono senza Dio, senza sogni, depressi, vuoti. Non riescono nemmeno a stare seduti dritti. Non conosco la gratitudine, vivono nella presunzione di saperne più di te, non sanno cosa sia la fiducia. Figli di una generazione vuota, sono frutti marciti ancora acerbi su una pianta malata. Ci sono eccezioni, grazie a Dio, ma restano tali. Alcuni credono in un aldilà, altri nei sogni, altri nei fantasmi, altri inscenano attacchi di panico se li si porti in chiesa. Prendono per vero tutto ciò che è online e credono di aver vissuto realmente ciò che hanno solo guardato in video girati da chissà chi, chissà dove. Sono soli, solissimi, bisognosi di adulti sani, veri, capaci di qualche solenne sgridata e non del solito “fai come ti senti”, facile quanto falso.

Consumano fumo, droghe, alcool, e praticano il sesso in modo così superficiale da perderne persino il gusto. Non gli interessa più nemmeno di essere definiti omosessuali o eterosessuali. Sono problemi da adulti. Loro si accoppiano indifferentemente con chi gli pare.

Alcuni sono sensibili a ciò che racconto, vorrebbero venire con me, sentono di aver bisogno di vita vera. Poi però non sono capaci nemmeno di guardare le foto che pubblico su Instagram. Seguire sui social un professore è un po’ da sfigati. Poi, appena gli dai un foglio bianco e gli dici di raccontarsi, ne viene fuori di tutto. Se fossi ricco, ricchissimo, li caricherei tutti su un aereo e li porterei qui. Sarebbe l’ultimo massaggio cardiaco per tentare di rianimare chi l’anima non sa di averla perché nessuno glielo ha mai detto.

L’esperienza nel sud-est asiatico, ha modificato il suo modo di capire e affrontare i problemi che incontra quotidianamente in Italia?

Ripeto, non lo so. È troppo tempo che frequento questi mondi. Non mi ricordo come ero prima. Posso dire che da un lato mi porta a fare più fatica, perché il nostro mondo occidentale è finto e irreale, ma te ne accorgi solo se esci e vivi a lungo con altre popolazioni. Parlo di vivere con e per la gente, non parlo di turismo, fosse pure quello spartano che oggi va di moda. Il tuffo a Bali non ti apre gli occhi, anzi. Nel nostro mondo alcuni problemi sono così artificiali che trovo faticoso ascoltarli. Dopo che ho visto morire bambini e vivere vecchi tra i rottami, come potrei ascoltare chi vorrebbe rendere mutuabili le cure veterinarie per “i nostri amici pelosi”?

Per altri versi, la vita qui a Timor mi insegna a confidare, ad aspettare, a dare tempo alle persone di reagire con calma. A dare tempo anche a Dio. Mi insegna a non rifiutare mai l’aiuto a chi te lo chiede. Nel dubbio, preferisco essere ingannato che lasciare senza aiuto un bisognoso. In Italia vedo anche una grande generosità di alcune persone splendide che mi aiutano a sostenere gli studenti qui. Persone normali, non ricche, semplicemente buone e giuste. Certo sono poche, non si arriva al centinaio, ma aiutano con fedeltà. Sono di più quelli che si limitano ad ascoltare o leggere i miei racconti. Ammirano le mie foto, mi danno molti consigli, ma forse ritengono poco fine darmi dieci euro. Può anche essere che, come dicevo, si siano convinti d’essere loro i poveri.

Quanto a cambiamenti, una cosa che certamente è cambiata in me, è il modo di fotografare. Prima fotografavo solo paesaggi e animali. Ora non riesco a distogliere l’inquadratura dagli esseri umani. L’umanità, ecco cosa cerco.

Trascorrere alcuni mesi a Dili, essere a contatto con la povertà, quale insegnamento porta dentro di sè da trasmettere ai giovani che incontra nella sua vita pastorale in Italia?

Anni fa parlavo più spesso di Timor. Ora sono più riservato, temo di essere noioso, di apparire “fissato” su un argomento solo. Certo spero sempre che qualcuno mostri interesse, perché quando si ama qualcuno, si gioisce nel parlarne, come lei mi sta dando occasione. A volte faccio scorrere gli “stato whattsapp” dei miei amici e colleghi: ognuno sta facendo la sua vacanza con la sua famiglia, non posso pretendere che siano coinvolti in questa realtà come lo sono io. Tuttavia è bellissimo quando qualcuno mi invia anche solo un saluto e mi fa sentire la sua vicinanza.

Ormai la conosco bene la fatica del rientro, quel desiderio di sentirsi chiedere tante cose ma accorgersi che la vita continua, che la gente nel frattempo ha vissuto altro e che bisogna rispettare i suoi interessi.
Allora resto in silenzio e racconto solo a chi lo desidera davvero. Le persone di Timor sono entrate nella mia vita, ma non posso pretendere che interessino a tutti. D’altra parte, io non sono qui per fare un’esperienza forte e intensa e poi prepararmi alla prossima. Io vivo alternativamente qui e in Italia. È il mio modo d’essere, finche la vita lo concederà. Quello che dico, scrivo, predico e fotografo, contiene già il sapore di tutto ciò, anche se non ne parla direttamente.

didascalia: Pietro Raimondi a Timor Est

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