“Il giorno è corto: il lavoro da compiersi è molto; non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di desistere” – come diceva Rabbi Tarfon (Mishnah, Avoth).
Questa frase ‘sapienziale’ illustra bene la fatica della ricerca umana, la quale riguarda tutti gli ambiti della vita, la storia di ieri, la storia di oggi, e ci conduce a ritenere che tutti noi siamo convinti, certamente, di fare sforzi per raggiungere la verità sulle cose, ma, d’altra parte, non è facile raggiungere un consenso, ed anche quest’ultimo può non essere determinante ai fini della verità.
Oggi, è vero, le reti di comunicazione sociale consentono d’informarsi e di farsi un’opinione immediata e documentata su molte cose che non sappiamo. Possiamo apprendere molto sulla storia di un gruppo, sulla sua cultura, sulla sua religione. Ma è anche vero che le medesime reti sociali sono divenute la maggiore fonte di disinformazione e di sviamento della verità e della conoscenza. Assistiamo a ondate di reazioni popolari dominate dall’emozione e da idee preconcette.
Traspare spesso un’insufficiente capacità sia di eseguire gli elementari collegamenti logici storici e concettuali, sia di formulare conclusioni documentate ed equilibrate; sia (infine ma importantissimo) di tradurre tutto ciò in proposte politiche adeguate e sostenibili.
Un esempio di questo disordine logico e comunicativo e l’ondata di risentimenti contrapposti (che si riversa anche nel nostro Paese) sono le vicende in Ucraina e in Medio Oriente.
Leggiamo o sentiamo titoli di servizi giornalistici che ci parlano di difficili situazioni (non si tratta di negarne la drammaticità!) ma viene data una versione che, basata spesso su un ‘fonte’ sola (esempio: per i dati statistici), finisce per installare nell’ascoltatore sentimenti di continua ostilità verso una parte o non favorisce un valido confronto sulle diverse posizioni. Oggi ci sono versioni di fatti (versioni ‘di sistema’) che sono filo-occidentali, filo-russe, filo-palestinesi, filo-israeliane ed altro: secondo il ‘sistema’ in cui ci si trova a vivere ed ascoltare notizie.
Ritornando alla citazione riferita in apertura di questo articolo e alle parole “non sei libero di desistere”, non si può allora desistere dall’affrontare la conoscenza delle cose, e andare al di là della ‘narrazione’ che ci è offerta quotidianamente e che, sappiamo, essere piuttosto distorta o non completa. Questo atteggiamento di maggiore conoscenza, di affrontare la verità, potrebbe rivelarsi magari pericoloso, per tanti aspetti o per particolari prese di iniziativa.
Una di queste è l’ipotesi di un viaggio ed una permanenza in uno dei luoghi del conflitto e non solo strumentalmente per qualche reportage giornalistico, ma per ‘entrare nel sentimento’ di quel Paese e nella cultura di quel/quei popolo/i. Una conoscenza dal di dentro e non solo esteriore. Con, soprattutto, la possibilità di incontrare e colloquiare con le diverse ‘parti’, non con una sola: opportunità o necessità di andare alla radice.
Andare “lì” può essere pericoloso – viene affermato da più parti. Anche considerando il disallineamento culturale e comportamentale: la lingua del posto, le tradizioni particolari (alcune serbate quasi gelosamente), parole e gesti con significati ben precisi che, non conosciuti dallo straniero, possono offrire fraintendimenti, la libera o limitata circolazione (fisica, di espressioni verbali, di abbigliamento), gli aspetti di sicurezza fisica, personale o di gruppo. Dunque, una certa pericolosità in riferimento a determinate situazioni o Paesi.
La conoscenza (i grandi pensatori ce lo dicono sempre) è sempre pericolosa! La storia del pensiero, la storia della scienza lo dimostrano: la verità è pericolosa! Scardina certezze e pregiudizi.
E dunque, la decisione di un viaggio in Israele: al fine della ricerca di cosa vuol dire identità ebraica, identità palestinese, identità araba, identità cristiana, ed altre identità, che la storia ha contribuito a formare in quelle terre.
Tra le aspettative di un tale viaggio vi sono sia curiosità sia questioni di fondo: per la popolazione ebraica lo Stato d’Israele gioca (ancora) un ruolo di crescente centralità nella percezione dell’identità ebraica oppure è in corso un processo di progressivo allontanamento fra Diaspora ebraica e Israele? Inoltre, come interferiscono (e dialogano) le appartenenze etniche con le varie espressioni religiose professate? (specificamente, nell’ambito dello Stato israeliano: i palestinesi di religione ebraica, quelli di religione araba, di religione cristiana o di altri credo): una comunità che, se trovasse un accordo di convivenza, sarebbe un esempio per il mondo intero e la concretizzazione di cosa significa ‘vivere la pace’.
Un altro motivo di ricerca è la questione identitaria: se è difficile, cioè, fuori da Israele ‘misurare’ le caratteristiche dell’identità ebraica, all’interno dello Stato (d’Israele) gli individui come esternano ed esprimono il loro senso di identità personale e di gruppo?
Una terra (rivendicata da Israele) dove risiede tuttavia anche la popolazione palestinese. Andare alla radice allora di cosa significa l’espressione “questa è la mia terra”. Comporta allora, anzitutto, conoscere un po’ di storia del Medio Oriente e non solo quella iniziata qualche anno fa. Conoscere (per capire un po’ meglio i problemi attuali) le condizioni di vita di chi sta al di là dei muri di separazione tra le zone del territorio (zona A, B, C), dove per accedervi viene richiesto il passaporto ed effettuato il controllo della persona e dove è raccomandata la non esibizione (nella zona non ebraica) di simboli caratteristici di appartenenza religiosa specifica.
Decidere di vedere la realtà in Israele, vivendola dall’interno, è un’esperienza che investe la persona nella sua totalità e confronto col particolare territorio: aspetti di antropologia, religione, politica, natura e paesaggio, storia, architettura e arte, usi e costumi, ma anche altri aspetti, i pericoli e gli aspetti di incolumità.
Un viaggio in Israele è anche una immersione nella storia religiosa, è andare alla fonte del nostro credo. E’ la terra delle tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam). E’ mettere i nostri passi sulle orme dei fondatori. Ripercorrere, di persona, la “Via Dolorosa” verso il Calvario a Gerusalemme, è comprendere, anche fisicamente, il motivo delle tre cadute di Cristo. Mettere, fisicamente, la mano sulla pietra del sepolcro è già un inizio di comprensione del ’mistero’.
Assistere, vedere, ascoltare, partecipare alle funzioni, presso il Santo Sepolcro, celebrate distintamente e contemporaneamente (quasi disturbandosi a vicenda), dagli Ortodossi greci, dal Copti, dai Cristiani, significa entrare nella cultura liturgica e teologica millenaria di tali espressioni religiose, unite nel nome di Cristo ma separate umanamente. Scendere, a Betlemme, nella grotta della Natività, è partecipare, intimamente, al mistero della nascita di ogni bimbo e vedere, vivere, non poter far a meno di constatare la sacralità della vita, in ogni fase di essa.
Ripercorre la salita alla (ex) fortezza di Masada, episodio della storia di Israele e della resistenza degli zeloti (i fondamentalisti ebrei del tempo di Cristo) contro gli ‘invasori’ romani è immergersi nella dimensione delle lotte secolari e millenarie del popolo ebreo contro i potentati.
Vedere coi propri occhi il luogo, i luoghi, dello strazio delle centinaia di giovani trucidati da Hamas in quell’orribile 7 ottobre 2023 è domandarsi come l’umanità possa arrivare ancora a tali atrocità, anche dopo il “mai più” proclamato dal mondo intero l’indomani delle efferatezze naziste e della Shoah.
Avere avuto la possibilità di incontrare e colloquiare con le varie ‘parti’, nell’ambito della questione ‘Israele/Palestinesi’, è risultata una impresa non facile ma emozionante ed istruttiva oltre il previsto.
Mettere piede nel Patriarcato con il colloquio col vescovo cattolico a Gerusalemme, e successivamente, col titolare della Nunziatura Apostolica, hanno significato toccare con mano lo stato dei rapporti intrattenuti dalle Autorità che rappresentano i cristiani in terra d’Israele. Così, analogamente e specularmente, in territorio palestinese, il colloquio col vicerettore dell’Università di Betlemme (situata in Palestina) ha consentito di saggiare il sentimento ‘palestinese’.
A livello strettamente culturale e scientifico l’incontro col direttore dell’Archivio Albert Einstein (scritti e manoscritti originali del grande scienziato ebreo di origine tedesca) ha consentito lo scambio di ‘doni’ (documenti storici rari) tra tale Archivio e l’italiana Biblioteca Ambrosiana, rappresentata da uno dei suoi ‘dottori’, specialista di Studi Medio-Orientali.
I rapporti di amicizia con personalità locali hanno inoltre consentito lo scambio di vedute e di valutazioni culturali, sociali, politiche, mettendo in evidenza i distinti punti di vista e le possibili soluzioni per i conflitti in essere e per problematiche sociali. Così come, anche, le critiche per certe decisioni da parte dell’attuale governo israeliano, condivise da alcuni e non condivise da altri.
La partecipazione, presso l’abitazione di una famiglia ebraica, in occasione della festività ebraica del sabato (secondo la secolare tradizione dello ‘Shabbat Shalom’) ha fatto vivere anche a noi ‘cristiani’ lì presenti (così ormai disabituati!) il sentimento della centralità di Dio attraverso la (lunga e articolata) preghiera ebraica nel contesto della cena, con forme di esteso rispetto e convinzione verso gesti che rappresentano l’identità di un popolo.
Giorni di permanenza in Israele più istruttivi di un master, vincendo perplessità iniziali, legate ai problemi di sicurezza che in molti paventavano (e paventano). Ma in nome del “non sei libero di desistere” il viaggio ha dunque avuto l’approvazione dei pochissimi e coraggiosi partecipanti: con aereo di linea ElAl, scortato quasi improvvisamente sui cieli del Mediterraneo da caccia israeliani in una giornata di lancio di missili Hezbollah su Tel Aviv: biglietto da visita in Israele? E voglia di tornare indietro per non rischiare altro? Anche questo è (è stato) un segnale per comprendere come si vive in un Paese (ai confini di Libano, Egitto, Giordania) i cui cittadini ‘dovrebbero’ sentirsi al sicuro, ma la loro storia dimostra che non lo sono mai. Così come i loro coabitanti palestinesi.
Rendere vivibile la vita a Israeliani ebrei e a Palestinesi di qualsiasi credo religioso comporta non condividere i messaggi di ‘guerra santa’ proclamati dai radicali (in ogni Paese d’Europa), dai ‘collettivi’ ed anche organizzazioni terroristiche che in vari cortei inneggiano al grido “Sì per l’intifada, sì alla distruzione dello Stato d’Israele!”, sottolineando così le violenze di Netaniahu a Gaza ma nel contempo dimenticando gli orribili eccidi del 7 ottobre 2023 a Nova (alla periferia di Gaza) perpetrati da Hamas su centinaia e centinaia di giovani inermi.
Se, certamente, non è corretto far finta di non vedere le violenze di una certa parte, occorre dire a gran voce che la pace non si raggiunge con l’odio incrociato, ma con l’ammissione anche dei propri torti. Ma oggi si vuole solo avere ragione! Così, la pace si allontana e si diventa tifosi delle ideologie.